Il diritto alla vita è senza dubbio un diritto primordiale, il primo fra tutti i diritti fondamentali dell’uomo, quello che presuppone e “dà vita “ agli altri.
Secondo l’art. 2 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo
“il diritto alla vita è protetto dalla legge “
e la protezione di questo fondamentale diritto da parte dello Stato, non può essere meramente “illusoria”, ma deve essere reale ed effettiva, come, in effetti, più volte la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha avuto modo di affermare nell’ambito della sua attività esegetica d’interpretazione, evolutiva e dinamica, in applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale vive e si attua proprio attraverso la giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Molte volte la Corte Europea è chiamata in causa a dire l’ultima parola nelle situazioni più singolari che involgono, non solo il divieto dello Stato dal causare e/o mettere concretamente in pericolo la vita di una persona, ma anche le sue obbligazioni positive, sostanziali e procedurali, che nascono dall’art. 2 della Convenzione.
Non vi è dubbio che gli ospedali, pubblici e privati, sono il luogo dove queste obbligazioni a protezione della vita del malato, totalmente affidata proprio alla struttura ed ai professionisti sanitari, vengono in maggiore e netto rilievo, poiché il mancato rispetto di questi obblighi può essere la causa della morte e, dunque, della violazione del diritto a vivere .
Con la sentenza di Grande Camera Lopes de Sousa Fernandes v. Portugal del 19 dicembre 2017 la Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha voluto, ancora una volta, precisare quali siano le obbligazioni dello Stato e, in particolare quali gli obblighi, sostanziali e procedurali, per affermare il principio che nel caso di morte per colpa medica non ricorre violazione dell’art. 2 della Convenzione, sotto il profilo materiale.
I fatti.
Invocando l’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo la sig.ra Lopes de Sousa Fernandez lamentava che il marito era deceduto all’ospedale in seguito ad un’infezione nosocomiale dovuta alla negligenza ed imprudenza del personale medico.
Inoltre si doleva che le autorità interne, cui si era rivolta, non avevano chiarito adeguatamente la causa del peggioramento dello stato di salute del marito .
Invocando, ancora, l’art. 6 della Convenzione addebitava allo Stato del Portogallo la irragionevole durata delle procedure interne volte a ricercare le rispettive responsabilità nel decesso del marito ed, ancora deduceva violazione dell’art. 13 della Convenzione Europea per non aver avuto un ricorso effettivo ai fini della tutela dei diritti assunti violati.
Più in particolare esponeva che nella mattinata del 26 novembre 1997 il marito Luis Fernandes veniva ricoverato presso il reparto otorino-laringoiatra dell’ospedale di Vila Nova de Gaia per un banale intervento di polipectomia nasale. Fu operato il giorno dopo e dimesso la mattina seguente, intorno alle 10,00.
Nella mattinata del 29 novembre la signora accompagnava, nuovamente, il marito presso il pronto soccorso dell’Ospedale dell’ ospedale di Vila Nova de Gaia poiché accusava forti mal di testa ed era in preda ad uno stato di agitazione. Qui gli furono diagnosticati problemi psicologici e prescritti tranquillanti. Venivano consigliate le dimissioni, ma su opposizione della moglie, rimase in ospedale dove, successivamente gli fu praticata una puntura lombare che rivelò la presenza di una meningite batterica. Fu quindi trasferito nel reparto di terapia intensiva e qui rimase sino al 5 dicembre 1997 per poi essere ricoverato presso il reparto di medicina generale, dove furono diagnosticate e curate due ulcere duodenali.
Il 13 dicembre 1997 il sig. Luis Fernandes fu dimesso.
Il 18 dicembre, in preda a vertigini, mal di testa, forti dolori addominali, fu ricoverato, ancora una volta, presso l’ospedale di Vila Nova de Gaia dove gli fu praticata una trasfusione di sangue. Il giorno seguente, il 19 dicembre, una endoscopia confermò la presenza di ulcere gastroduodenali. Il 23 dicembre 1997 fu dimesso, ma, dopo l’uscita dall’ospedale continuava a soffrire di forti dolori addominali e diarrea, tanto che il 9 gennaio 1998 ritornò nuovamente, d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale di Vila Nova de Gaia, dove dopo una visita medica , fu rinviato al proprio domicilio.
Il 25 gennaio successivo fu nuovamente ospedalizzato, presso dell’ospedale di Vila Nova de Gaia, con colite infettiva ed ulcera. Il 3 febbraio fu dimesso.
Il 17 febbraio 1998 fu ricoverato presso l’Ospedale generale di Oporto, dove morì l’ 8 marzo 1998, per setticemia, a seguito di intervento d’urgenza per perforazione del duodeno.
In seguito alla morte del proprio marito la sig.ra Lopes de Sousa Fernandez intentò una serie di azioni volte alla ricerca delle cause della improvviso peggioramento dello stato di salute e della sua inaspettata morte e delle rispettive responsabilità nel decesso.
Ella, pur non allegando che la morte del marito fosse stata provocata intenzionalmente, era tuttavia convinta che il decesso era stato causato da una infezione nosocomiale e da diversi fatti di negligenza medica verificatisi nel corso della degenza in ospedale.
In particolare riteneva che all’origine della meningite vi fosse il batterio pseudomonas cepacia, contratto proprio in occasione dell’intervento di polipectomia presso il reparto otorino-laringoiatra dell’ospedale di Vila Nova de Gaia.Inoltre, allorquando il marito si recò presso il pronto soccorso del medesimo Ospedale il giorno successivo alle dimissioni, il 29 novembre 1997, fu commesso un grave errore di diagnosi, sicché il ritardo diagnostico della meningite aveva permesso lo sviluppo di una infezione potenzialmente mortale per la cui cura si rese necessario un trattamento farmacologico troppo forte, i cui effetti secondari avevano condotto alla perforazione dell’ulcera duodenale, all’intervento d’urgenza e , in definitiva alla morte per setticemia del marito.
I sanitari non seppero dare una spiegazione medico-scientifica convincente sull’evolversi del peggioramento e, in definitiva del decesso del sig. Lous Fernandes.
Pertanto, il 13 agosto 1998 la sig.ra Lopes de Sousa Fernandes si rivolse al Ministro della Salute e all’Ordine dei medici, denunciando il fatto e lamentando di non aver avuto alcun riscontro circa l’improvviso peggioramento e morte del proprio marito.
Solo due anni dopo, il 20 novembre 2000 fu aperta l’inchiesta e una consulenza resa a distanza di ben quattro anni, senza l’espletamento di particolari indagini, nel luglio 2006, concluse per l’assenza di responsabilità e/o negligenza da parte dei sanitari che avevano avuto in cura il marito della ricorrente. Fu riscontrata la responsabilità da parte di un solo medico, che avrebbe dovuto somministrare le cure più appropriate e trattenere il paziente sotto sorveglianza medica. Perciò il sanitario fu sottoposto a procedimento disciplinare e penale per omicidio colposo, ma fu assolto per mancanza di prove.
Il 28 dicembre 2001 l’esposto presso l’Ordine dei medici fu ritenuto infondato, per assenza di prove in ordine alla negligenza medica. Anche l’appello fu respinto.
Il 6 marzo 2003 la signora intraprese un’azione di risarcimento danni per la morte del marito, anche questa senza successo per mancanza di prova sul nesso causale.
Esperiti tutti i rimedi interni disponibili senza avere giustizia, la sig.ra Lopes de Sousa Fernandes si rivolgeva,infine, alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, invocando l’art. 2 (violazione del diritto alla vita), l’art. 6 (diritto ad un equo processo sotto il profilo della irragionevole durata) e l’art. 13 (diritto ad un ricorso effettivo) della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo.
Con sentenza di Camera del 15 dicembre 2015 della Corte Europea accertò la violazione i dell’art. 2 della Cedu, sia sotto l’aspetto sostanziale che procedurale.
In particolare la sentenza di Camera ritenne che, presentando l’intervento chirurgico, in linea generale, un rischio teorico di meningite infettiva, quale possibile complicazione dell’intervento di polipectomia, il paziente sarebbe dovuto essere sottoposto a un protocollo di stretta sorveglianza post operatoria. Ciò, invece, non era avvenuto, sicchè, la mancanza di coordinamento tra il reparto ORL e il pronto soccorso testimoniava, secondo la Corte, una disfunzione del servizio pubblico ospedaliero che aveva privato il paziente del diritto di accesso a cure d’urgenza appropriate. Perciò lo Stato era venuto meno alla sua obbligazione di proteggere l’integrità fisica del sig. Fernandes.
La sentenza di Grande Camera del 19 dicembre 2017 fa, tuttavia, un passo indietro, dichiarando che gli errori, negligenze e/o il mancato coordinamento del personale medico non comportano responsabilità dello Stato dal punto di vista sostanziale dell’art. 2 della Cedu.
La grande Camera è dell’avviso, infatti, che, in presenza di un quadro normativo e regolamentare adeguato, quale è stato ritenuto quello predisposto dallo Stato chiamato in causa, che impone agli ospedali, pubblici o privati di adottare tutte le misure appropriate per proteggere la vita dei pazienti, la mancanza di coordinazione tra i reparti della struttura non vale a configurare una disfunzione strutturale o sistemica, o un rifiuto di cure, tale da ingaggiare una responsabilità dello Stato per violazione sostanziale dell’art. 2 della Convenzione.
Nondimeno, la Grande Camera ha concordato con la Camera sulla violazione della norma sotto il profilo procedurale, vale a dire dell’obbligazione positiva si svolgere indagini efficaci in ogni caso in cui vi sia stata la morte di una persona.
La Corte ha ritenuto che, nel caso di specie, i procedimenti interni sollecitati dalla ricorrente, non si sono rivelati effettivi, prima di tutto a causa dell’eccessiva lungaggine con cui si sono protratti, rilevando, sotto questo profilo, esclusivamente procedurale , la violazione da parte dello Stato dell’art. 2, piuttosto che dell’art. 6 della Convenzione.
Inoltre l’obbligazione procedurale non sarebbe stata rispettata poiché l’indagine interna si sarebbe limitata al momento della causa diretta e del decesso dell’individuo, senza tenere in debito conto la sequenza degli avvenimenti e il nesso che gli stessi potevano presentare, rivelandosi , così ulteriormente inadeguata ed inefficace.
In questa sentenza si ha l’impressione che la Corte abbia fallito nel suo compito di guardiano dei diritti umani, vieppiù di un diritto primordiale quale è quello della vita dell’uomo, limitandosi ad un approccio procedurale più che sostanziale della norma invocata.
Vi sono casi, come quello di specie, in cui, nonostante un adeguato quadro legislativo e regolamentare, la negligenza dei sanitari in un ospedale si configura come un evidente diniego di cure appropriate ed adeguate a protezione della vita, irrimediabilmente messa in pericolo.
E qui la Corte ha avuto l’occasione di precisarlo, di fornire un maggiore orientamento sul punto, ma ha preferito fare un passo indietro.
Si può, allora, concordare con le opinioni dissenzienti a margine della sentenza di Grande camera e col giudice Pinto De Albuquerbe quando afferma ( opinioni dissenzienti G.C. 19/12/2017 § 93-94)
“ in Europa, c’era un tempo in cui il diritto non entrava nelle prigioni né nelle caserme , e dove i sorveglianti e gli ufficiali erano dei intoccabili mentre i detenuti ed i soldati erano soggetti insignificanti. Quei giorni sono finiti da qualche tempo per le prigioni e le caserme . E’ deplorevole che non lo sono ancora per gli ospedali. Per la maggioranza, la Convenzione deve restare alla porta dell’ospedale. Questa causa avrebbe potuto segnare una svolta. La Grande Camera non ha voluto che ciò accadesse. Mi rammarico che, nel respingere una lettura della Convenzione basata su principi e tenendo conto dell’effettività che deve essere data, la Corte non ha reso piena giustizia”.
Avv. Iolanda De Francesco
Foro di Lecce