Le Misure Di Sorveglianza Speciale Di Pubblica Sicurezza Violano I Diritti Garantiti Dell’Art. 2. Protocollo 4 Della Convenzione Europea Dei Diritti Dell’Uomo: De Tommaso Contro Italia Sentenza G.C. Del 23 Febbraio 2017

Con sentenza di Grande Camera del 23 febbraio 2017 , resa nel caso De Tommaso contro Italia, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha affermato che le misure di sorveglianza speciale, imposte al ricorrente per la durata di due anni, violano il diritto fondamentale dell’uomo della libertà di movimento protetto dall’art. 2 Protocollo 4 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, poiché la legge nazionale non è sufficientemente precisa e prevedibile.

Il caso.

Il 22 maggio 2007 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari chiedeva l’applicazione della misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per due anni in forza della legge n. 1423/1956, con obbligo di residenza .

La richiesta era giustificata in considerazione dei precedenti penali del ricorrente, per droga, evasione e detenzione di armi e per vicinanza ad ambienti malavitosi, così da risultare socialmente pericoloso.

Il ricorrente si opponeva alla predetta richiesta, contestando e rilevando che vi era stato un errore di persona, in particolare un caso di omonimia, e rilevando che dall’ultima condanna, risalente al 2002, non era più stato sottoposto a procedimenti giudiziari e, dunque, concludeva che non vi era alcuna necessità di sottoporlo alla chiesta misura di sicurezza di sorveglianza speciale.

Con decisione dell’11 aprile 2008 il Tribunale di Bari, respingendo le argomentazioni del ricorrente e ritenendo lo stesso un individuo socialmente pericoloso poiché vicino a figure di spicco di malavita locale, disponeva la misura di sicurezza personale per la durata di due anni, con obbligo per lo stesso di:

  • presentarsi una volta alla settimana presso l’autorità di polizia incaricata della sorveglianza;
  • cercare un lavoro entro un mese;
  • risiedere a Bari;
  • vivere onestamente e nel rispetto delle leggi, senza prestarsi a sospetti;
  • non frequentare persone che avevano subito condanne e sottoposte a delle misure di prevenzione o di sicurezza;
  • non rientrare la sera dopo le 22 e non uscire al mattino prima delle 7, salvo in caso di necessità e avvertendo le autorità in tempo utile;
  • non detenere o portare armi;
  • non frequentare bar o pubblici ritrovi e non partecipare a riunioni pubbliche;
  • non usare telefoni cellulari o radio comunicazioni
  • portare sempre con sé la carta precettiva e presentarsi su richiesta alle autorità di polizia.

Il ricorrente appellava il provvedimento innanzi alla Corte di Appello di Bari, che con sentenza del 28 gennaio 2009 accolse l’impugnazione e cancellò la misura, sul presupposto dell’ insussistenza di elementi che potessero validamente far supporre la pericolosità sociale del ricorrente.

Essa rilevò che il delitto per il quale l’appellante era stato condannato non era di particolare gravità e risaliva al 2004 e che in seguito non aveva commesso alcun crimine. Il fatto che avesse frequentato persone condannate, poi, non era ritenuto sufficiente per affermare la sua pericolosità. Secondo la Corte di Appello, inoltre, il Tribunale aveva omesso di valutare l’incidenza della funzione rieducativa della pena sulla personalità del ricorrente.

Invocando gli articoli 5 e 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione EDU, il ricorrente ricorse alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo lamentando l’arbitrarietà ed eccessiva durata della misura di prevenzione applicatagli, con la quale era stata, altresì limitata lalibertà personale nonché quella di circolazione e movimento.

Invocando, ancora, l’articolo 6 § 1 della Convenzione si duoleva della mancanza di pubblicità della procedura davanti al Tribunale ed alla Corte di Appello.

Invocando, infine, l’articolo 6 §§ 1 e 3 e) e 13 della Convenzione, eccepiva, sotto diversi profili, l’iniquità della procedura con cui era stata disposta l’applicazione delle predette misure ed, inoltre, che il diritto interno non offriva un ricorso effettivo per far valere la violazione dell’art. 5 della Cedu.

Con l’indicata sentenza di Grande Camera, in continuità con la propria precedente giurisprudenza, la Corte di Strasburgo ha dichiarato inammissibile ratione materiae la doglianza sotto il profilo dell’art. 5 e 13 Cedu, ritenendo che i fatti lamentati non rientrassero nell’ambito di applicazione della norma invocata (art. 5), non valendo gli stessi a prefigurare una privazione della libertà personale in quanto tale protetta dal § 1 dell’art. 5 della Cedu, quanto, piuttosto, una restrizione della libertà di movimento tutelata dall’art. 2 Prot. 4 della cedu.

La differenza, prosegue la Corte, tra privazione e restrizione della libertà è nel grado e/o intensità, durata , modalità della misura, per la quale assumono rilievo anche il contesto e le circostanze in cui la stessa si attua.

E nel caso di specie il fatto che il ricorrente poteva lasciare la propria abitazione durante il giorno e coltivare la propria vita sociale e di relazione non prefiguravano una violazione della libertà personale.

Certamente, però, le misure imposte hanno costituito una interferenza nella diritto alla libertà di movimento tutelato dall’art. 2 Prot. 4 , interferenza rivelatasi illegittima poichè priva, in sostanza , di base legale .

Ed invero la Corte ha ritenuto che la legge n. 1423/1956, applicabile ratione temporis al caso di specie, non è sufficientemente prevedibile e precisa nei suoi effetti e lascia ampia discrezionalità al giudice nazionale nella applicazione delle misure stesse, sia nell’an che nel quomodo .

La Corte ha osservato, infatti, che né la legge, né la giurisprudenza della Corte Costituzionale intervenuta più volte sulla normativa, hanno chiarito quali siano le circostanze in fatto, gli specifici comportamenti, ovvero le condizioni rilevanti per stabilire la pericolosità sociale dell’individuo ai fini dell’applicazione delle misure in questione.

La mancanza di più specifiche indicazioni da parte del legislatore circa lo scopo e/o le modalità di applicazione ed il tipo di prescrizioni, come detto imprecise ed imprevedibili non offre, secondo il Giudice internazionale, una seria garanzia di tutela del ricorrente che è, così, esposto alla discrezionalità ed all’arbitrio dell’autorità che applica la misura, né tantomeno consente a chi la subisce di validamente conformare la propria condotta al precetto.

Infatti l’art. 3 e 5 della legge n. 1453/1956 contiene, secondo il Giudice di Strasburgo, formulazioni generiche, dal contenuto estremamente vago ed indeterminato, anche con riguardo alla prescrizioni imposte al sorvegliato speciale, quale quella relativa al “ vivere onestamente e nel rispetto delle leggi, senza prestarsi a sospetti”.

I giudici della Corte Europea si interrogano sul significato, evidentemente estremamente generico di questa prescrizione, al quale corrisponde un’ altrettanta ampia discrezionalità dell’interprete ed incertezza di conformazione del destinatario della propria condotta agli obblighi imposti.

In definitiva, acclarata l’ingerenza statale nel diritto alla libertà di movimento, essa tuttavia si è rivelata illegittima poiché priva di base legale.

Il principio affermato ancora una volta dal giudice internazionale è, infatti , che la legge interna non solo deve sussistere, ma, deve essere ritenuta “qualitativamente idonea” e cioè accessibile alla persona interessata e prevedibile quanto agli effetti.

Perciò, sebbene,l’applicazione delle misure in questione sia avvenuta in forza di una legge domestica, della quale non è in discussione la sua accessibilità, tuttavia essa difetta del requisito della prevedibilità.

In definitiva non essendo la legge nazionale “foreseeable “ l’ingerenza attuata con l’imposizione delle misure di sicurezza si è rivelata illegittima, con conseguente violazione del diritto fondamentale dell’a libertà di movimento protetto dall’art. 2 Protocollo 4 della Cedu.

Avv. Iolanda De Francesco

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