Benefici Legge 104/1992: Adesso Anche Al Convivente More Uxorio

Con sentenza n. 213/2016, depositata il 23 settembre 2016, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), come modificato dall’art. 24, comma 1, lettera a), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro) nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.

Il convivente more uxorio è, dunque, tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità.

IL TESTO INTEGRALE DELLA SENTENZA

SENTENZA N. 213
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Alessandro CRISCUOLO, Giorgio
LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO,
Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,

ha pronunciato la seguente SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104
(Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), promosso
dal Tribunale ordinario di Livorno nel procedimento vertente tra B.D. e l’Azienda USL 6 di Livorno ed
altro, con ordinanza del 15 settembre 2014, iscritta al n. 232 del registro ordinanze 2014 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2016 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
uditi l’avvocato Antonietta Coretti per l’INPS e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 15 settembre 2014, il Tribunale ordinario di Livorno, in funzione di giudice
del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge 5
febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone
handicappate), come modificato dall’art. 24, comma 1, lettera a), della legge 4 novembre 2010, n. 183
(Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e
permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in
tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), per violazione degli artt. 2, 3 e 32 della
Costituzione.
L’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, rubricato «Agevolazioni» prevede, nel testo
modificato dal cosiddetto Collegato lavoro, che: «A condizione che la persona handicappata non sia
ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap
in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado
qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i
sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o
mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione
figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un
lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per
l’assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i
genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente».
Ad avviso del Tribunale rimettente, la norma contrasterebbe con i citati parametri costituzionali
«nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di
assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità».
1.1.– Il giudizio principale ha ad oggetto il ricorso proposto da B.D., dipendente della Azienda USL
6 di Livorno, nei confronti di quest’ultima per vedersi riconosciuto il diritto ad usufruire dei permessi di
assistenza di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 a favore del proprio compagno,
convivente more uxorio e portatore di handicap gravissimo e irreversibile (morbo di Parkinson) e, al
contempo, per contrastare la pretesa della USL di recuperare nei suoi confronti – in tempo e in denaro –
le ore di permesso di cui aveva usufruito per l’assistenza già prestata al proprio convivente nel periodo
2003-2010, su autorizzazione della stessa USL, poi revocata dalla Azienda, per l’assenza di legami di
parentela, affinità o coniugio con l’assistito.
In particolare – riferisce il Tribunale rimettente – con ricorso depositato in data 23 aprile 2013, la
ricorrente chiedeva, in via principale, che si accertasse e si dichiarasse il proprio diritto di usufruire dei
permessi di assistenza previsti dall’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 e, conseguentemente, si
condannasse la Azienda USL di Livorno a consentire alla medesima di usufruire dei detti permessi a
favore del convivente P.F., conformemente alla domanda presentata in data 9 giugno 2011; si accertasse
e si dichiarasse l’insussistenza del diritto della USL a recuperare, attraverso importi trattenuti in busta
paga e ore di lavoro, il goduto periodo di permessi ex art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, e,
per l’effetto, si condannasse l’Azienda ospedaliera: a) a restituire ad essa istante le somme indebitamente
trattenute per il recupero delle ore di permesso fruite nel periodo 2003-2010, maggiorate della
rivalutazione monetaria e degli interessi dalla trattenuta al saldo; b) a remunerare le ore di lavoro svolte
per il recupero delle ore di permesso godute nel periodo 2003-2010, oltre rivalutazione monetaria e
interessi. In via subordinata, la ricorrente chiedeva che fosse sollevata questione di legittimità
costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, nella parte in cui non include il
convivente more uxorio tra i beneficiari del permesso mensile retribuito, per violazione degli artt. 2, 3,
32 e 38 Cost. nonché dell’art. 177 (recte: 117) Cost., in relazione agli artt. 1, 3, 7, 20 e 21 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo
il 12 dicembre 2007.
L’Azienda USL 6 di Livorno si costituiva nel giudizio a quo chiedendo il rigetto delle domande.
Il rimettente precisa che, con sentenza non definitiva dell’8 gennaio 2014, accoglieva la domanda di
accertamento negativo della ricorrente dichiarando l’insussistenza del diritto dell’Azienda ospedaliera di
recuperare, attraverso importi trattenuti in busta paga ed ore di lavoro, i già usufruiti periodi di permesso
ex art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 e, per l’effetto condannava la USL alla restituzione in
favore della ricorrente delle somme indebitamente trattenute nonché al pagamento, in suo favore, di una
somma pari alla retribuzione ad essa spettante per le ore di lavoro svolto in esecuzione del piano di
recupero predisposto dalla USL, oltre accessori di legge.
Chiamato in causa, su richiesta della USL, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) si
costituiva nel giudizio principale, chiedendo il rigetto della domanda della ricorrente.
2.– In punto di rilevanza, il Tribunale ordinario di Livorno osserva che il giudizio principale – avente
ad oggetto la domanda di accertamento del diritto della ricorrente, con decorrenza dal giugno 2011, a
fruire dei permessi retribuiti di assistenza in favore del disabile grave, convivente more uxorio – non
possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della sollevata questione di legittimità
costituzionale.
Il giudice a quo ritiene che, alla luce della normativa vigente, non possa farsi luogo ad una
interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata.
Ad avviso del rimettente, il dettato normativo, tanto nella formulazione precedente che in quella
successiva alla modifica di cui all’art. 24, comma 1, lettera a), della legge n. 183 del 2010, applicabile al
giudizio principale, è chiaro nell’escludere il convivente more uxorio dal novero dei fruitori dei permessi
retribuiti di assistenza, precludendo l’estensione, in via esegetica, a quest’ultimo dei benefici in
questione.
Il Tribunale a quo esclude, peraltro, che sussistano i presupposti per una disapplicazione parziale del
censurato art. 33, comma 3, attesa la ritenuta inesistenza nell’ordinamento dell’Unione europea di
disposizioni, rilevanti nella fattispecie, che abbiano efficacia diretta (non è, al riguardo, ritenuta
pertinente la sentenza della Corte di giustizia, 12 dicembre 2013, in causa C-267/12, Hay contro Crédit
agricole mutuel de Charente-Maritime et des Deux-Sèvres, avente ad oggetto il diritto al congedo
matrimoniale di coloro che hanno stipulato un cosiddetto patto civile di solidarietà).
3.– In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale ordinario di Livorno dubita, in riferimento
agli artt. 2, 3 e 32 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del
1992, «nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di
assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità».
Il Tribunale a quo ricorda che la Corte costituzionale, con ordinanza n. 35 del 2009, ha dichiarato
manifestamente inammissibile analoga questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di
Savona.

Il rimettente ritiene che la diversità delle fattispecie e i mutamenti normativi intervenuti medio
tempore rendano rilevante e non manifestamente infondata la prospettata questione di costituzionalità.
Il giudice a quo osserva che nel giudizio principale costituiscono circostanze incontestate che P.F.,
non ricoverato presso istituti specializzati o strutture sanitarie, sia un soggetto gravemente handicappato,
con necessità di assistenza continua; che la ricorrente e P.F. convivano stabilmente dall’ottobre del 2002;
che la ricorrente sia l’unica persona ad assistere il compagno nei continui ricoveri ospedalieri, nella
riabilitazione motoria e logopedistica; che il figlio di P.F. viva con la madre, dalla quale il primo è
divorziato dal 2002, e abbia con il padre rapporti saltuari non prestandogli assistenza; che gli altri parenti
o affini di P.F. vivano lontani e non abbiano mai prestato assistenza allo stesso; che P.F. non abbia,
dunque, parenti o affini, entro il terzo grado, idonei a provvedere alla sua assistenza e a garantirgli il
diritto alla salute.

Il rimettente sottolinea come, a seguito della citata pronuncia di manifesta inammissibilità della
Corte costituzionale, il legislatore, modificando l’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, in forza
dell’art. 24, comma 1, lettera a), della legge n. 183 del 2010, abbia escluso espressamente la convivenza
quale presupposto per la concessione del beneficio, subordinando la fruizione dello stesso alla sola
esistenza di un vincolo di matrimonio, parentela, affinità (entro il secondo grado e, in casi particolari,
entro il terzo grado) tra il lavoratore dipendente che domanda il permesso retribuito e la persona disabile
necessitante di assistenza.

Il giudice a quo rileva che il mutato quadro normativo e il numero crescente di interventi legislativi e
giurisprudenziali (da ultimo, Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 gennaio 2014, n.
1277) hanno attribuito sempre maggiore rilevanza alla famiglia di fatto.
Inoltre – osserva il rimettente – la legge n. 104 del 1992, significativamente rubricata «Legge-quadro
per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate», nel rafforzare gli strumenti
volti a sostenere il disabile e il suo nucleo familiare, ha attribuito alla famiglia un ruolo essenziale nei
confronti della persona con handicap grave, garantendo una molteplicità di funzioni (assistenza, affetto e
solidarietà) altrimenti difficilmente attuabili nella loro pienezza ed effettività.
Il Tribunale a quo evidenzia come, dal tenore letterale dell’art. 33 della legge n. 104 del 1992, il
concetto di famiglia preso in considerazione dalla norma non sia quello di famiglia nucleare tutelata
dall’art. 29 Cost. quanto quello di famiglia estesa nella quale sono ricompresi i parenti e gli affini sino al
terzo grado, anche se non conviventi con l’assistito.
La famiglia che viene in rilievo nell’art. 33 – aggiunge il rimettente – è dunque quella intesa come
«formazione sociale» ai sensi dell’art. 2 Cost., strumento di attuazione e garanzia dei diritti fondamentali
dell’uomo e luogo deputato all’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale.

Da questa premessa il giudice a quo desume «una discrasia tra la norma in parola, nella parte in cui
non attribuisce alcun diritto di assistenza al convivente more uxorio, e i principi sanciti a più riprese dalla
giurisprudenza nazionale (tanto costituzionale che di legittimità) e sovranazionale in punto di tutela della
famiglia di fatto retta dalla convivenza more uxorio e dei diritti e doveri connessi all’appartenenza a tale
formazione sociale».
Il rimettente richiama, al riguardo, sul piano sovranazionale, la giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo in merito all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848 sulla tutela del diritto alla vita familiare, intesa come ricomprensiva non solo delle
relazioni basate sul matrimonio ma anche di altri legami familiari di fatto (sentenza 24 giugno 2010,
Schalk e Kopf contro Austria).

A questo indirizzo corrisponde – prosegue il giudice a quo – un orientamento giurisprudenziale
nazionale, sia costituzionale che di legittimità, che valorizza il riconoscimento ai sensi dell’art. 2 Cost.
delle formazioni sociali, nelle quali va ricondotta «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea
a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione» (sentenza della Corte
costituzionale n. 138 del 2010; sulla convivenza more uxorio, quale formazione sociale, sono richiamate,
altresì, la sentenza della Corte costituzionale n. 404 del 1988 e la sentenza della Corte di cassazione,
sezione prima civile, n. 1277 del 2014).

Nella nozione di formazione sociale, la giurisprudenza sia costituzionale che di legittimità – ricorda
il rimettente – ha ricondotto la stabile convivenza tra due persone, anche dello stesso sesso (sono
richiamate la sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 e la sentenza della Corte di cassazione,
sezione prima civile, 15 marzo 2012, n. 4184).
In particolare, il rimettente sottolinea come la Corte costituzionale, sin dagli anni ’80, abbia
affermato espressamente che l’art. 2 Cost. è riferibile altresì «alle convivenze di fatto, purché
caratterizzate da un grado accertato di stabilità» (sentenza n. 237 del 1986).

Anche nella giurisprudenza di legittimità – osserva il giudice a quo – si rinvengono significative
pronunce in merito alla rilevanza di formazione sociale della convivenza more uxorio, fonte di diritti e
doveri morali e sociali del convivente nei confronti dell’altro (sono richiamate, con riguardo
all’affermazione della responsabilità aquiliana nei rapporti interni alla convivenza, Corte di cassazione,
sezione prima civile, sentenza 10 maggio 2005, n. 9801; nelle lesioni arrecate da terzi, Corte di
cassazione, sezione terza civile, sentenze, 21 marzo 2013, n. 7128; 16 settembre 2008, n. 23725; con
riguardo alla rilevanza della convivenza del coniuge separato o divorziato ai fini dell’assegno di
mantenimento o di quello di divorzio, Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 12 marzo 2012,
n. 3923; 11 agosto 2011, n. 17195; 10 agosto 2007, n. 17643; 10 novembre 2006, n. 24056; con riguardo
alla tutela possessoria, Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 21 marzo 2013, n. 7214).
Il Tribunale a quo rileva, altresì, come nella stessa legislazione nazionale, ferma la diversità dei
rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal
matrimonio, siano emersi segnali nel senso di una sempre maggiore rilevanza della famiglia di fatto.

Avuto riguardo al richiamato quadro legislativo e giurisprudenziale sulla cosiddetta famiglia di fatto,
ad avviso del rimettente, l’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, nell’escludere dal novero dei
possibili beneficiari dei permessi retribuiti il convivente more uxorio, violerebbe l’art. 2 Cost., non
consentendo alla persona affetta da handicap grave di beneficiare della piena ed effettiva assistenza
nell’ambito di una formazione sociale che la stessa ha contribuito a creare e che è sede di svolgimento
della propria personalità.

La norma in oggetto contrasterebbe anche con l’art. 3 Cost. stante la irragionevole disparità di
trattamento, in punto di assistenza da prestarsi attraverso i permessi retribuiti, tra il portatore di handicap
inserito in una stabile famiglia di fatto e il soggetto in identiche condizioni facente parte di una famiglia
fondata sul matrimonio, diversità che non trova ragione – secondo il Tribunale a quo – nella ratio della
norma che è quella di garantire, attraverso la previsione delle agevolazioni, la tutela della salute
psico-fisica della persona affetta da handicap grave (art. 32 Cost.), nonché la tutela della dignità umana e
quindi dei diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost., beni primari non collegabili geneticamente
ad un preesistente rapporto di matrimonio ovvero di parentela o affinità.

Il giudice a quo precisa che il dubbio di costituzionalità non riguarda la perfetta equiparabilità della
convivenza di fatto al rapporto di coniugio, ma la ragionevolezza, ex art. 3 Cost., della diversità di
trattamento per quanto attiene alla particolare disciplina dei diritti di assistenza alle persone con
handicap.

Nel caso di specie – ad avviso del rimettente – non rileverebbe, la diversità rispetto al rapporto di
coniugio della convivenza more uxorio, fondata sulla affectio quotidiana, liberamente e in ogni istante
revocabile, di ciascuna delle parti, in quanto la norma censurata non è finalizzata ad assicurare a colui
che assiste una persona con handicap grave un trattamento pensionistico o di natura patrimoniale, bensì,
a garantire, attraverso la previsione di agevolazioni, la tutela del soggetto disabile.

Il Tribunale a quo ritiene, quindi, che, in considerazione della riferibilità dell’art. 2 Cost. anche alle
convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità (sono richiamate le sentenze
della Corte costituzionale n. 310 del 1989 e n. 237 del 1986) nonché della riconducibilità dei diritti
sottesi alla norma censurata nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo presidiati dall’art. 2 Cost., non
siano ragionevoli la diversità di trattamento denunciata e il conseguente vuoto di tutela.

4.– Con memoria depositata in data 12 gennaio 2015 si è costituito in giudizio l’INPS chiedendo che
la sollevata questione di legittimità costituzionale sia dichiarata non fondata.
Preliminarmente, l’INPS eccepisce il difetto di legittimazione passiva nel giudizio a quo, stante la
pacifica natura pubblica del rapporto di lavoro che lega la ricorrente all’USL di Livorno, con
conseguente obbligo di corresponsione dell’indennità ai sensi dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104
del 1992 esclusivamente a carico dell’amministrazione pubblica di riferimento. Al riguardo, l’Istituto
precisa che solo per i lavoratori dipendenti privati l’indennità è anticipata dal datore di lavoro e poi a
quest’ultimo rimborsata dall’ente previdenziale attraverso il sistema del conguaglio con i contributi allo
stesso dovuti.

A sostegno della non fondatezza della questione, l’INPS richiama la giurisprudenza costituzionale
che ritiene non assimilabili la famiglia di fatto e quella fondata sul matrimonio, l’una caratterizzata
dall’affectio quotidiana, liberamente e in ogni caso revocabile, e l’altra dalla stabilità, certezza,
reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri da essa scaturenti, con conseguente ragionevolezza
della non automatica parificazione delle due situazioni e dunque della diversità di trattamento fra i
rispettivi regimi (sentenza n. 2 del 1998; in materia previdenziale, sentenze n. 86 del 2009 e n. 461 del
2000).

In particolare – osserva l’INPS – la mancata inclusione del convivente more uxorio tra i beneficiari
dei permessi retribuiti mensili troverebbe una ragionevole giustificazione nella necessaria correlazione
tra l’erogazione dei fondi pubblici e la preesistenza di un rapporto giuridico certo qual è quello della
famiglia fondata sul matrimonio.

L’Istituto esclude, altresì, la violazione del «principio della tutela delle formazioni sociali in cui si
sviluppa la persona umana» (sentenza n. 461 del 2000), in quanto, da un lato, l’ostacolo al
riconoscimento del permesso retribuito dipende dalla autonoma scelta dei conviventi di non conformarsi
allo statuto della famiglia legittima e, dall’altro, tale beneficio di carattere meramente economico risulta
di difficile inquadramento tra i diritti inviolabili dell’uomo presidiati dall’art. 2 Cost. Peraltro – precisa
l’INPS – il mancato riconoscimento del permesso mensile di assistenza al convivente di fatto non
vulnererebbe neanche indirettamente il diritto di salute del disabile, potendo beneficiare della prestazione
in esame parenti ed affini, esistenti nel caso di specie.

In ultimo, l’Istituto sottolinea l’inammissibilità della pronuncia di carattere additivo in quanto «le
esigenze solidaristiche evidenziate dal rimettente possono trovare la sede idonea alla loro realizzazione
nell’attività del legislatore e non già nel giudizio di legittimità costituzionale» (sentenza n. 461 del 2000).

5.– Con memoria depositata in data 13 gennaio 2015, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la sollevata
questione di legittimità costituzionale sia dichiarata non fondata.
In primo luogo, la difesa statale ritiene non meritevole di pregio la censura di violazione dell’art. 3
Cost. per assunta disparità di trattamento tra il coniuge e il convivente more uxorio. Sul punto, deduce la
non assimilabilità, per giurisprudenza costituzionale, della convivenza more uxorio al vincolo coniugale,
considerato il diverso fondamento rispettivamente nell’art. 2 e nell’art. 29 Cost., nonché la diversità
dell’una dall’altra forma di vita comune tra uomo e donna, tale da giustificare una non uniformità di
trattamento tra i rispettivi regimi (sentenze n. 140 e n. 86 del 2009; n. 8 del 1996; ordinanza n. 7 del
2010).

L’Avvocatura generale sottolinea come il legislatore abbia inteso correlare il diritto ai permessi
retribuiti agli obblighi giuridici di assistenza che si impongono nell’ambito della famiglia fondata sul
matrimonio. Al riguardo, la difesa statale rileva anche che la Corte costituzionale ha evidenziato
l’essenziale ruolo della famiglia nella cura e nella socializzazione del soggetto disabile (sentenza n. 350
del 2003), estendendo l’ambito di applicazione delle varie disposizioni dirette ad assicurare particolare
assistenza al portatore di handicap sempre nell’ambito dell’istituto della famiglia legittima (con riguardo
all’istituto del congedo straordinario – che si assume abbia la stessa funzione e ratio della norma
censurata – sono richiamate le sentenze n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del
2005). L’istituto del permesso mensile retribuito, ugualmente al congedo straordinario – osserva
l’Avvocatura generale – troverebbe un corrispettivo nei particolari obblighi giuridici che il coniuge
assume con il matrimonio e non solo in un generale dovere di solidarietà sociale.

Da qui la ritenuta non contrarietà della norma censurata al principio di eguaglianza, ai principi
costituzionali che riconoscono le formazioni sociali e al diritto alla salute, stante la particolare idoneità
della famiglia fondata sul matrimonio ad assicurare le forme di assistenza riconosciute ed incentivate dal
legislatore nella sua discrezionalità.
Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità
costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza,
l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), come modificato dall’art. 24, comma 1,
lettera a), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per
l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure
contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro) «nella
parte in cui non include il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza al
portatore di handicap in situazione di gravità», per violazione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione.

L’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, rubricato «Agevolazioni», nel testo modificato dal
cosiddetto Collegato lavoro, prevede che: «A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata
a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in
situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora
i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i
sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o
mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione
figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un
lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per
l’assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i
genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente».

Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata nell’escludere dal novero dei possibili
beneficiari dei permessi retribuiti il convivente more uxorio, si porrebbe in contrasto con l’art. 2 Cost., in
quanto non consentirebbe alla persona affetta da handicap grave di beneficiare della piena ed effettiva
assistenza nell’ambito di una formazione sociale che la stessa ha contribuito a creare e che è sede di
svolgimento della propria personalità; con l’art. 3 Cost., unitamente agli artt. 2 e 32 Cost., poiché
darebbe luogo ad una irragionevole disparità di trattamento, in punto di assistenza da prestarsi attraverso
i permessi retribuiti, tra il portatore di handicap inserito in una stabile famiglia di fatto e il soggetto in
identiche condizioni facente parte di una famiglia fondata sul matrimonio. Tale diversità, infatti, non
troverebbe ragione nella ratio della norma che è quella di garantire, attraverso la previsione delle
agevolazioni, la tutela della salute psico-fisica della persona affetta da handicap grave ex art. 32 Cost.,
nonché la tutela della dignità umana e quindi dei diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost., beni
primari non collegabili geneticamente ad un preesistente rapporto di matrimonio ovvero di parentela o
affinità.

2.– Il Tribunale rimettente sottopone all’esame di questa Corte una richiesta di pronuncia additiva
volta a colmare una lacuna nella legislazione, ritenuta contraria ai principi costituzionali invocati.
2.1.– Il giudice a quo è chiamato a decidere sulla domanda di accertamento del diritto della
ricorrente ad usufruire dei permessi di assistenza di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992,
conformemente all’istanza presentata da quest’ultima alla Azienda USL di Livorno nel giugno del 2011.
La questione è rilevante, in quanto la norma applicabile ratione temporis al giudizio principale è,
dunque, l’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, come modificato dal cosiddetto Collegato
lavoro, senza che rilevi la successiva novella di cui all’art. 6, comma 1, lettera a) del decreto legislativo
18 luglio 2011, n. 119 (Attuazione dell’art. 23 della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante delega al
Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi), disciplinante,
peraltro, una fattispecie particolare – quella del possibile cumulo del permessi nel caso di assistenza a più
persone in situazione di handicap grave – non ricorrente nel caso di specie.

3.– Nel merito, la questione è fondata.
3.1.– Per un adeguato inquadramento della stessa, occorre, preliminarmente, ricostruire la ratio legis
dell’istituto del permesso mensile retribuito di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, alla
luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato.
Invariate sono rimaste nel tempo le condizioni oggettive per il riconoscimento del permesso mensile
retribuito ravvisabili nella situazione di disabilità grave, ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 104
del 1992, riconosciuta, con certificazione o verbale, dalla apposita Commissione Medica Integrata ex art.

4, comma 1, della legge n. 104 del 1992, nonché – fatte salve specifiche eccezioni – nel mancato
ricovero a tempo pieno del portatore di handicap da assistere.
La formulazione originaria dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 riconosceva il diritto a
fruire dei tre giorni di permesso mensile, anche in maniera continuativa, alla lavoratrice madre o, in
alternativa al lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità che avesse
compiuto i tre anni di età, nonché a colui (lavoratore dipendente) che assistesse una persona con
handicap in situazione di gravità, parente o affine entro il terzo grado, convivente.

L’art. 19, comma 1, lettera a), della legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della
maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle
città), modificando l’art. 33 della legge n. 104 del 1992, ha previsto la copertura da «contribuzione
figurativa» dei giorni di permesso retribuito di cui al comma 3 dello stesso articolo.
L’art. 20 della medesima legge n. 53 del 2000 ha sancito l’applicabilità delle disposizioni dell’art. 33
della legge n. 104 del 1992 «ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o
privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado
portatore di handicap, ancorché non convivente».

Dalla lettura congiunta dell’art. 33 della legge n. 104 del 1992 con l’art. 20 della legge n. 53 del
2000, la prevalente giurisprudenza amministrativa (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione quarta, 22
maggio 2012, n. 2964; Consiglio di Stato, sezione sesta, 1° dicembre 2010, n. 8382) ha desunto la
eliminazione del requisito della “convivenza” anche per i permessi mensili retribuiti di cui al comma 3
dell’art. 33, nonché l’introduzione dei diversi requisiti della “continuità ed esclusività” dell’assistenza ai
fini della concessione delle agevolazioni in questione.

L’art. 24, comma 1, lettera a), della legge n. 183 del 2010 ha modificato sensibilmente la portata
dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992.
In particolare, il legislatore, nel ridefinire la categoria dei lavoratori legittimati a fruire dei permessi
per assistere persone in situazione di handicap grave, ha ristretto la platea dei beneficiari.
Infatti, se, da un lato, ha eliminato la limitazione del compimento del terzo anno di età del bambino
per la fruizione del permesso mensile retribuito da parte del lavoratore dipendente genitore del minore in
situazione di disabilità grave (potendo i genitori, in forza della modifica, fruire, alternativamente, del
permesso mensile retribuito anche per assistere figli portatori di handicap in età inferiore ai tre anni),
dall’altro, ha riconosciuto il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile al lavoratore dipendente,
pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine
entro il secondo grado.

Solo in particolari situazioni l’agevolazione in questione può essere estesa ai parenti e agli affini di
terzo grado delle persone da assistere.
Infatti, l’estensione del diritto a fruire dei benefici in questione ai parenti e affini di terzo grado è
stata prevista nei casi in cui il coniuge o i genitori della persona affetta da grave disabilità: a) abbiano
compiuto i sessantacinque anni di età; b) siano affetti da patologie invalidanti; c) siano deceduti o
mancanti.

L’art. 24 della legge n. 183 del 2010, inoltre, se da un lato, nel novellare l’art. 20, comma 1, della
legge n. 53 del 2000, ha eliminato i requisiti della “continuità ed esclusività” dell’assistenza per fruire
dei permessi mensili retribuiti, dall’altro, nel modificare l’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992,
ha introdotto il principio del “referente unico” per ciascun disabile, ovvero del riconoscimento del
permesso mensile retribuito a non più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con
handicap in situazione di gravità, fatta salva la possibilità per i genitori, anche adottivi, di fruirne
alternativamente, per l’assistenza dello stesso figlio affetto da grave disabilità. Nella formulazione
dell’art. 33, comma 3, come sostituito dall’art. 24, comma 1, lettera a), della legge n. 183 del 2010, è
stato, peraltro, espunto espressamente il requisito della “convivenza”.

Il legislatore è intervenuto nuovamente nella materia dei permessi mensili retribuiti spettanti per
l’assistenza a persone con disabilità grave, in sede di attuazione della delega contenuta nell’art. 23 della
legge n. 183 del 2010. Tale delega è stata attuata dal d.lgs. n. 119 del 2011, in particolare dall’art. 6.
L’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 119 del 2011 ha aggiunto un periodo al comma 3 dell’art.
33 della legge n. 104 del 1992, relativo alla disciplina della particolare fattispecie del cumulo dei
permessi mensili retribuiti in capo al dipendente che presti assistenza nei confronti di più persone in
situazione di handicap grave, allorquando ricorrano determinate situazioni ivi elencate.
3.2.– Quanto all’ammontare e alle modalità di godimento dei permessi mensili retribuiti ex art. 33,
comma 3, della legge n. 104 del 1992, l’indennità – fruibile in maniera continuativa o frazionata – è pari
all’intero ammontare della retribuzione ed è a carico dell’ente assicuratore; viene anticipata dal datore di
lavoro ed è portata a conguaglio con gli apporti contributivi dovuti all’ente assicuratore (ai sensi dell’art.
43 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, recante «Testo unico delle disposizioni legislative in
materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo
2000, n. 53», nel quale sono contenute le disposizioni dell’art. 8 della legge 9 dicembre 1977, n. 903,
recante «Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro», abrogato dall’art. 86 del d.lgs. n.
151 del 2001).

Inoltre, i periodi di fruizione dei permessi ex art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, sono
computabili nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità (ai
sensi dell’art. 34, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, richiamato dall’art. 43, comma 2, del medesimo
decreto legislativo).

Il permesso mensile retribuito di cui al censurato art. 33, comma 3, è, dunque, espressione dello
Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti
che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave. Trattasi di uno strumento di politica
socio-assistenziale, che, come quello del congedo straordinario di cui all’art. 42, comma 5, del d.lgs. n.
151 del 2001, è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità
prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed
intergenerazionale.

3.3.– La tutela della salute psico-fisica del disabile, costituente la finalità perseguita dalla legge n.
104 del 1992, postula anche l’adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie «il
cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap» (sentenze n.
203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005).
Nel novero di tali interventi si iscrive il diritto al permesso mensile retribuito in questione.
Infatti, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato, la ratio
legis dell’istituto in esame consiste nel favorire l’assistenza alla persona affetta da handicap grave in
ambito familiare.

Risulta, pertanto, evidente che l’interesse primario cui è preposta la norma in questione – come già
affermato da questa Corte con riferimento al congedo straordinario di cui all’art. 42, comma 5, del d.lgs.
n. 151 del 2001 – è quello di «assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del
disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall’età e dalla condizione di figlio
dell’assistito» (sentenze n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007).
Tanto più che i soggetti tutelati sono portatori di handicap in situazione di gravità, affetti cioè da una
compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali tale da «rendere necessario un intervento
assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione», secondo
quanto letteralmente previsto dall’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992.

L’istituto del permesso mensile retribuito è dunque in rapporto di stretta e diretta correlazione con le
finalità perseguite dalla legge n. 104 del 1992, in particolare con quelle di tutela della salute psico-fisica
della persona portatrice di handicap.
La salute psico-fisica del disabile quale diritto fondamentale dell’individuo tutelato dall’art. 32 Cost.,
rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all’uomo, sia come singolo che
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).

L’assistenza del disabile e, in particolare, il soddisfacimento dell’esigenza di socializzazione, in tutte
le sue modalità esplicative, costituiscono fondamentali fattori di sviluppo della personalità e idonei
strumenti di tutela della salute del portatore di handicap, intesa nella sua accezione più ampia di salute
psico-fisica (sentenze n. 158 del 2007 e n. 350 del 2003).

Il diritto alla salute psico-fisica, ricomprensivo della assistenza e della socializzazione, va dunque
garantito e tutelato, al soggetto con handicap in situazione di gravità, sia come singolo che in quanto
facente parte di una formazione sociale per la quale, ai sensi dell’art. 2 Cost., deve intendersi «ogni
forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona
nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico» (sentenza n. 138 del
2010).

3.4.– Alla luce delle premesse sopra svolte, se tale è la ratio legis della norma in esame, è
irragionevole che nell’elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito ivi
disciplinato, non sia incluso il convivente della persona con handicap in situazione di gravità.

L’art. 3 Cost. va qui invocato, dunque, non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque
diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente, ma per la contraddittorietà logica della
esclusione del convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare il diritto alla salute
psico-fisica del disabile (v. sia pure per profili diversi, la sentenza n. 404 del 1988).
E ciò in particolare – ma non solo – nei casi in cui la convivenza si fondi su una relazione affettiva,
tipica del “rapporto familiare”, nell’ambito della platea dei valori solidaristici postulati dalle
“aggregazioni” cui fa riferimento l’art. 2 Cost.

Questa Corte ha, infatti, più volte affermato che la distinta considerazione costituzionale della
convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti
particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a
norma dell’art. 3 Cost. (sentenze n. 416 e n. 8 del 1996; ordinanza n. 121 del 2004).
In questo caso l’elemento unificante tra le due situazioni è dato proprio dall’esigenza di tutelare il
diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, nella sua accezione più ampia, collocabile tra i diritti
inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost.

D’altra parte, ove così non fosse, il diritto – costituzionalmente presidiato – del portatore di handicap
di ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita, verrebbe ad essere irragionevolmente
compresso, non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul
piano affettivo, ma in funzione di un dato “normativo” rappresentato dal mero rapporto di parentela o di
coniugio.
3.5.– Se, dunque, l’art. 3 Cost. è violato per la non ragionevolezza della norma censurata, gli artt. 2 e
32 Cost. lo sono, quanto al diritto fondamentale alla salute psico-fisica del disabile grave, sia comesingolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
La norma in questione, nel non includere il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso
mensile retribuito, vìola, quindi, gli invocati parametri costituzionali, risolvendosi in un inammissibile
impedimento all’effettività dell’assistenza e dell’integrazione.
3.6.– Il carattere residuale della fruizione dell’agevolazione in questione da parte del parente o affine
entro il terzo grado, induce questa Corte ad includere il convivente tra i soggetti beneficiari, in via
ordinaria, del permesso mensile retribuito (coniuge, parente o affine entro il secondo grado).
3.7.– Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104
del 1992, nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso
mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al
coniuge, parente o affine entro il secondo grado.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104
(Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), come
modificato dall’art. 24, comma 1, lettera a), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in
materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di
ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di
occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro
pubblico e di controversie di lavoro) nella parte in cui non include il convivente – nei sensi di cui in
motivazione – tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla
persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo
grado.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2016.

F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 settembre
2016.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA

Condividi